L'origine

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    Freddo.
    Freddo.
    Freddo.
    Rumore lontano.
    Freddo.

    Nel suo cervello non c’era nulla. Non c’erano i nomi delle cose. Non c’era la consapevolezza del suo corpo. Non c’era la noia. Non c’era la cognizione stessa della noia.
    Teneva gli occhi fissi per terra mentre strascicava un piede dopo l’altro, in maniera disordinata, a volte quasi arrivando a storcersi le caviglie, a braccia leggermente aperte per mantenere l’equilibrio, incapace di staccare tra loro le ginocchia come si deve. Non sapeva perché lo stava facendo, lo faceva e basta. Non sapeva da quanto stava camminando. All’inizio era stato attirato da un non so che di lucente, un oggetto in movimento, un rumore lontano… chi se lo ricordava più. Mantenere l’attenzione sulle cose non era ancora possibile. Esse apparivano ai suoi sensi e si appellavano ai suoi istinti, ma tempo qualche secondo e venivano inghiottite dall’oblio… o depositate nella memoria, chi può dirlo. Si ha una memoria anche quando non si è consapevoli di saper ricordare le cose…?
    Ad ogni modo, procedeva. Avanzava. E forse una certa presa sul suo cervello l’ebbe quella stessa cosa che stava facendo, quell’azione che stava compiendo da tempo. E se inizialmente inseguiva elementi indefiniti con lo sguardo e una animalesca tensione interiore le gambe, le braccia, il corpo stesso… non sapevano accompagnarlo nel desiderio. Era scattato e caduto di faccia più volte. Era pieno di polvere, ma non sapeva cosa fosse la polvere, non sapeva cosa significasse “essere sporchi”. Reagiva solo se questa gli cadeva negli occhi.
    Tornando alla camminata, vi aveva così inconsapevolmente prestato attenzione da starla perfezionando passo dopo passo. Se il suo cervello era andato in una cancrena di informazioni e nozioni, a quanto pare invece il suo corpo conservava una certa sapienza: anche se non sapeva camminare in un modo appropriato (che poi, davvero ne esiste uno…?) non era come un neonato con un corpo in formazione, il suo corpo era congelato in un’immobile eternità priva di evoluzione. Il cervello era resettato (e chissà se si sarebbe mai risvegliato o se agli Zombie non era proprio concesso di tornare ad avere un’autocoscienza almeno simile a quella umana), il corpo aveva ancora impresso un automatismo che poteva sfruttare: non si era mai messo a quattro zampe, era come se “sapesse” che doveva approcciarsi al cammino da bipede. L’equilibrio non era dei migliori, ma se stava issato su due soli arti con la schiena bene o male dritta “sapeva” che quella cosa che stava cercando di ottenere era fondamentale per non farsi del male mentre procedeva.
    Senza che se ne accorgesse, dunque, si era concentrato a lungo termine su qualcosa.

    Freddo.
    Freddo.
    Freddo.
    Freddo.
    Freddo.
    Un rantolo sommesso.
    Freddo.

    Se faceva una certa cosa (come descrivere il processo di articolazione fonetica?) produceva un certo rumore. E lo faceva lui. Riprovò, mentre continuava a camminare: quel suono sembrava prendere vita da diverse parti del suo corpo. Anche se non sapeva come esprimerlo in parole o concetti anche solo a sé stesso, quel suono era suo, era dentro di lui, lo comandava lui.
    Si accorse di un qualcosa che si era modificato nel terreno: punti scuri che erano comparsi. Un filo bianco, il senso di umido (umido?). Intuì che qualsiasi cosa fosse stava cadendo dalla sua bocca. La chiuse. La riaprì. Aspirò e inghiottì la saliva. Un’altra cosa sua.

    Freddo.

    Continuava a camminare emettendo a diverse frequenze quel suono che era suo, muoveva quel corpo che era suo con una coscienza sempre maggiore: si fermava, accelerava, si voltava (benché l’articolazione in sé continuasse a restare pressoché limitata). Le cose continuavano ad attirare la sua attenzione e i suoi sensi, ma nessuna di esse gli si fissava nella mente abbastanza a lungo perché potesse trattenerla. Erano tutte equiparate nel loro fascino improvviso e nella loro costitutiva indifferenza.
    Quante cose aveva visto, quante cose aveva udito, quante cose aveva sentito… chi può saperlo. Lui no di certo. Conosceva solo quelle cose sue.
    Le conosceva…?


    Sono molto eccitata perché filosoficamente parlando mi piace un sacco ricercare l'Origine con questo Zombie, anche se per una ovvia questione letterale devo velocizzare al massimo tutti i tempi o qui non si ruola mai xD Spero che le discussioni non diventino noiose!
     
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    « "Quello che al mondo serve, è solo un pò di stupore!" »


    Erano circa le sei della mattina. Ne era sicuro perchè ormai era da più di duecento anni che il bianco sole invernale batteva sulla sua finestra a quell’ora, annunciandogli l’arrivo di un nuovo giorno frenetico. Alzò il teschio dal cuscino impolverato facendo leva sulle articolazioni dei gomiti. Si tastò con un dito l’interno delle cavità che un tempo ospitavano gli occhi, in ricordo di un gesto che era abituato ormai a fare, ma che aveva, come dire, “perfezionato” per la sua nuova forma… scheletrica. Alzò il torace e con esso la spina dorsale, perfettamente visibile sotto la tunica un tempo bianca che gli faceva da pigiama… in realtà gli stava addosso come un foulard buttato a caso su un appendiabiti… non troppo bene insomma.
    Gli scivolò dal cranio la berrettina da notte, che si ostinava a mettere, nonostante non avesse più meningi da tenere al caldo; probabilmente questo lo faceva rimanere aggrappato ad un ricordo passato, dove quella berretta rappresentava il nuovissimo regalo di una vecchia zia cucito da un’altrettanto vecchia casacca da buttare. Oppure solo perchè faceva da troppo tempo parte del suo outfit notturno e non se ne voleva separare, semplicemente per noia. Si alzò e ad ogni movimento il suo corpo produceva il suono che si sente quando si calpesta un prato pieno di foglie secche:
    “Sono da buttare” sibilò assonnato il re del terrore.
    Appena ebbe fatto scrocchiare anche il più piccolo osso, riuscì ad impossessarsi di una postura retta, che gli garantiva un’altezza di più di due metri.
    L’occhiata consueta fuori dalla finestra fece riempire di gioia lo scheletro: la bellissima nebbia mattutina ricopriva tutta la città lasciando solo intravedere i bordi sfocati delle case e delle strade, rendendo mistica la sua città di Halloween. Jack sentiva ancora il profumo del Natale appena trascorso, come se la magia della festa avesse impregnato ogni singolo sasso della città e fosse restia ad andarsene.
    Di certo non sarebbe stato lui a spezzarla.
    Ormai le sue lunghe braccia funzionavano da sole, si era già messo il suo meraviglioso abito nero, che le bambole gli avevano sistemato da poco. Mentre si allacciava i gemelli argentati forma di teschio dava anche quei consueti colpi al braccio, come per istigare la manica della camicia bianco perla ad andare avanti da sola e raggiungere la giacca nera che la sovrastava, sbordando solo si due centimetri. Si sistemò il papillon. Era sempre andato fiero di quel pipistrello. A differenza dell’abito, quello non l’aveva mai cambiato. Anzi no, una volta gli aveva dovuto far rimettere il rubino dell’occhio sinistro. Non sapeva ancora come l’avesse perduto, ma quello che si ricordava bene era il trauma una volta tornato a casa la sera. Ora il pipistrello aveva un occhio piccolo piccolo e uno leggermente più grande, i quali gli davano un’espressione grottescamente accigliata, che faceva sorridere lo scheletro.
    Le mille scartoffie che aveva da compilare gli strapparono un sospiro malinconico, ma mai quanto il ricordarsi di dover andare ad aggiustare il cartello d’ingresso della città, buttato giù da qualcuno di molto gentile che non si era ripreso la briga di rimettere su. Tutto lui in sta città. Tutto lui doveva fare. Lasciò cadere la testa all’indietro piegando le gambe fino a far toccare le lunghissime braccia a terra: aveva assunto la classica espressione, se così si poteva chiamare quella smorfia, del ragazzino al quale è stato imposto dalla mamma il compito di rimettere a posto la propria camera. Ma a Jack non piaceva rimandare i compiti e di buona lena prese su il cartello, gentilmente ridipinto dai bambini della città (magari erano stati proprio loro, infimi bastardelli), chiodi e martello e uscì svelto dalla propria abitazione. Le sue lunghe gambe gli permettevano di compiere grandi spazi in brevissimo tempo, così in pochissimi secondi era già sceso dalla sua torre e stava già dirigendosi all’entrata, ovviamente al capo opposto della città. L’unica cosa che lo faceva andare di fretta e non fargli godere quella brezza mattutina era la paura di incontrare il sindaco sulla strada.
    Ma porca miseria era mai possibile che lui gli tartufasse già i suoi ormai spariti genitali con Halloween!? Dopo tutte le bellissime feste che aveva portato? Ogni volta malediva il giorno in cui lo aveva assunto come sindaco della città.
    Promise a se stesso di dover indire delle nuove elezioni. Anche se alle ultime 100 aveva vinto lui. Sempre con la solita campagna “Sono stato scelto direttamente dal Re del Terrore”. Che coglione. Era arrivato ad augurargli tutte le sfortune del mondo. A lui e a quel’altro che compare quando il buono pacioccone si altera. Schifosi. Entrambi.
    Più ci pensava, più la testa si incassava dentro le spalle, facendo comparire un’espressione tremenda su quello che una volta chiamava volto.
    Era talmente alterato che non si era nemmeno reso conto di essere praticamente arrivato al cancello nero. Aveva appena passato la Valle dei Lamenti, dove, per sua richiesta, gli zombie, non molto inclini ad addormentarsi la notte, dovevano mantenere i loro versi al minimo fino alle 8.00 della mattina...quindi anche in questa valle, per ora, regnava un coatto silenzio. In realtà si intravedevano degli zombie che l'avevano visto e che avevano fatto dei versi per salutarlo e altri zombie che erano arrivati per picchiare quelli che avevano fatto il verso e imporgli di fare silenzio, rantolando anch'essi.
    Sospirò alzando leggermente la mano per salutarli.
    -Zombie-
    Gli divertiva il fatto che fossero queste creature buffe ad accogliere gli ospiti, essendo il loro dominio proprio all'entrata. Le loro feste poi erano probabilmente la cosa più grottescamente esilarante dell'intera città.
    Scostò lo sguardo e si mise ad osservare il tristo cadavere del precedente cartello.
    Era il ventiquattresimo che montava.
    “Ormai sta città se ne va via in cartelli di benvenuto”.
    Piantò a terra l’asse portante sbuffando accigliato al quale avrebbe dovuto affiggere il cartello e iniziò a picchiarci sopra con il martello per piantarlo bene nel terreno, di modo che non lo tirasse via una qualunque brezza di vento.
    “ Si, ci manca solo il vento”.
    Si disse ironicamente tra sé e sé.
    Gli capitava spesso di parlare da solo… o meglio, di pensare ad alta voce. Soprattutto perché non trovava molti altri esseri che condividevano il suo entusiasmo per le cose belle.
    L’eco dei rintocchi del martello si sparse lungo tutto il bosco.
    Tra poche ore la città si sarebbe svegliata.
    E per quel momento, il cartello doveva essere affitto.


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    Movimento.
    Movimento in gruppo.
    Freddo.

    Lo stare ore a contatto con altri suoi simili gli sviluppò una sorta di primitivo e istintivo riconoscimento. Certe forme e colori avevano come un’aggregazione autonoma che poteva o interagire con lui o essergli indifferente. Naturalmente non aveva compreso queste cose, vi si era abituato in maniera istintiva.
    Di indole era piuttosto docile. E entusiasta. Sebbene non avesse un vero carattere, queste caratteristiche potevano essergli tranquillamente assegnate: qualche seme innato dentro di lui, non dei frammenti della personalità precedente, ma un’innata e precostituita propensione alle cose. Paura, fastidio, vergogna, appagamento: oltre a queste originarie e fisiche sensazioni, il modo con cui si approcciava alla scoperta, alla conoscenza, alla “vita” che adesso stava conducendo era… predisposto, aperto, disponibile. Anche senza alcuna sfumatura emotiva evidente che rivelasse il suo stato d’animo. Non aveva un’anima.
    Rantolando sommessamente si faceva strada tra gli Zombie mosso solo dal perfezionamento del proprio modo di camminare. Alcuni di questi gli si avvicinavano tentando di parlargli, ma lui non degnò di molto tempo nessuno di loro. Non avvertiva alcuna aria ostile, non avvertiva alcun bisogno di interagire. Cos’era poi, l’interazione, ancora non lo sapeva.
    Quelle figure avevano già iniziato ad incrinare la bolla del suo solipsismo in fieri (come prima anche le cose che semplicemente entravano, sfolgoranti, nel suo campo percettivo), ma ancora nessuna di loro era stata un evento così decisivo da mutare il modo in cui faceva esperienza e organizzava le sue conoscenze. No, ancora non riusciva ad andare oltre sé stesso, a ricordarsi la presenza di oggetti che aveva visto o sentito, ad associare una sorta di distintiva uguaglianza agli altri esseri della sua specie, ad entrare in contatto in maniera selettiva con l’alterità, qualunque forma assumesse.
    Come l’aria brucia facendosi strada, per la prima volta, nei polmoni dei neonati, così anche a lui serviva un’esperienza tanto forte quanto traumatica che gli sbloccasse il cervello, almeno in parte.

    Freddo.
    Rumori in lontananza.
    Freddo.

    Senza rendersene conto continuò a procedere fino agli estremi di quella valle in cui si trovava, da dove era venuto (percepiva la “familiarità”), annusando, osservando, camminando. Non era difficile rendersi conto delle distanze, era una cosa piuttosto istintiva. La difficoltà era nello gestire il tempo: da quanto stava errando senza meta? Aveva visto il resto del mondo cambiare tonalità, dal calore, all’abbandono, al freddo; non sapeva però in termini di tempo quanto fosse. Anzi, non aveva proprio idea del fatto che il tempo esistesse. Dopotutto, chi l’ha mai visto? Chi l’ha mai posseduto, oltre allo spazializzarlo?
    Ecco, la vicinanza e la lontananza erano invece elementi che non aveva bisogno di ponderare, per conoscerli. Sapeva che quel rumore sordo e intermittente proveniva dal punto in cui lui si stava dirigendo e che la distanza che li separava si stava accorciando.
    Sapeva già che le cose stavano in quel modo senza che nessuno gliele dovesse spiegare.
    Fu quando arrivò in quel famigerato “punto”, che non fu preparato alla straordinaria visione che gli si stagliò con violenza nelle pupille e si insidiò prepotentemente nelle le fibre ottiche e nervose.
    C’era, enorme e sottile, un essere perlaceo. Si muoveva. Il rumore proveniva da quello.
    Non poteva sottrarsi a quella vista.
    Ancora prima di provare paura od ostilità, ne era attratto, e in una maniera spaventosamente disarmante.
    Quello fu il momento in cui tutta la pacata omogeneità entro cui aveva compreso ogni cosa (inanimata) e ogni essere (della sua stessa specie), senza metterne veramente a fuoco i ruoli sostanziali, andò frantumandosi in una frazione di secondo, facendogli esplodere nel cervello, anche se ancora sotto forme indistinte e solo accennate, l’identità, il simile, il diverso.
    Ma era un nemico o un amico?
    Non provava ancora nulla a riguardo: lo guardava respirando rumorosamente a bocca aperta. Lo fissava. Lo studiava. Inconsciamente cercava di penetrare con la sua presenza entro quella insolente della figura bianchissima, ma più ci provava più si sentiva vulnerabile, scoperto, smembrato. E non riusciva a distogliere lo sguardo.
    Aveva qualcosa degli altri esseri che aveva visto. Aveva qualcosa di ogni elemento. Aveva persino qualcosa di sé stesso. Ma non era lui. Né simile a lui. Era altro da lui, ed era… sublime.
     
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    Jack si stava rendendo conto che il suo rumore stava causando non poco scompiglio tra la marmaglia zombie, che, pensò bene di iniziare a fare il consueto casino di cui era capace, come se il fatto che il re avesse fatto rumore per primo li giustificasse a farne altro loro. Come bambini curiosi spuntavano da dietro gli alberi, qualcuno da dentro le bare nelle quali si erano messi mogi mogi aspettando inermi il giorno, per poter riprendere a fare… nulla. Ogni tanto alzava gli occhi dal suo lavoro, inclinando la testa leggermente, per osservare questa scena a dir poco esilarante. Alcuni addirittura cadevano perché si erano sporti troppo dagli alberi, altri vedendo i compagni cadere distoglievano momentaneamente lo sguardo da Jack e si abbassavano lentamente per aiutare i caduti, per poi rialzare gli occhi vacui verso il nero sovrano.
    Era la volta dei chiodi. Ne prese uno, ma già ricordò di aver dimenticato il guanto di pelle che di portava sempre dietro in casi come questi: le ossa non facevano molto attrito sul ferro, perciò, quando teneva un chiodo gli scivolava dalle mani, nonostante lo stringesse con tutta la forza di cui era dotato… anzi, non faceva che peggiorare la situazione.
    Ci provò un paio di volte, ma con rammarico dovette cedere all’inevitabile. Sbuffò e si rialzò dalla posizione accovacciata che aveva adottato per raccogliere i chiodi.
    Sventolò velocemente la testa per cercare un aiutante.
    Intravide poi uno sguardo. Non era proprio uno sguardo, ma avrebbe potuto giurare di non averlo mai visto prima. Per quanto fosse uguale agli altri, aveva qualcosa di “proprio”. Fece muovere la mascella in un sorriso, come se non mostrasse già tutti i denti lo guardò fisso.
    Oddio: guardare è una parola grossa, non avendo occhi.
    Però, non si sa come, al re era stata donata la possibilità di vedere chiaramente anche senza di essi. Come se fosse destinato a vedere oltre le cose. Non aveva bisogno di occhi fisici, per vedere quello che c’era di importante. Le due nere cavità che gli erano rimaste trasmettevano sufficiente espressività per far capire a qualcuno di essere osservato.
    - Vieni, mio buon amico! - disse invitando il giovane zombie a raggiungerlo.
    Era a conoscenza della poca reattività degli zombie quindi si era già psicologicamente preparato a dover ripetere l’invito più e più volte, probabilmente sarebbe dovuto andarlo a prendere.
    Non tutti però.
    Quando parlava di zombie aveva sempre un riguardo particolare per Elettra. L’aveva scelta tra mille propri perché era conscia di esserci. Non aveva niente di particolarmente brillante. Insomma, era una zombie. Ma sapeva perfettamente che in quel momento era lì e stava facendo “cose”. Questa consapevolezza probabilmente le derivava da un’enorme esperienza di questa particolare condizione di esistenza, ma di certo la rendeva unica nel suo genere.
    Proprio lei aveva cercato di spiegargli, a modo tutto suo, proprio come ci si sentiva ad essere degli zombie, cosa comporta…erano stati dietro settimane perché lei riuscisse a fare frasi di senso compiuto, ma ci era riuscita, e per questo era fantastica. E Jack la adorava.
    Tornando al ragazzo, si stupì di come gli ricordasse proprio Elettra. Non per qualcosa in particolare, ma per i suoi occhi. Tanto comuni quanto unici. Non avevano niente di speciale, ma erano i suoi. Da quell’istante li avrebbe associati a lui e a lui solamente.
    Annuì leggermente con il cranio e ripeté l’invito ad avvicinarsi, questa volta enfatizzandolo con la lunghissima mano. Era circa ad una ventina di metri di distanza. Non era sicuro lo avesse capito benissimo… Ma non si dava per vinto.
    Se era nuovo, doveva conoscerlo. Se non lo era, il non ricordarselo era una grave mancanza al quale avrebbe rimediato. Si prendeva molto a cuore i suoi cittadini, amava e rispettava ognuno di loro. E la sua memoria di ferro lo aiutava in questo compito.
    Due piccioni con una fava: aiuto per i chiodi e mantenimento della sua fama nella comunità.



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